Così nel mio parlar vogl'esser aspro (Dante Alighieri) a 5 [prima parte] (Nono Libro 1599)
Così nel mio parlar voglio esser aspro com’è ne li atti questa bella petra, la quale ognora impetra maggior durezza e più natura cruda, e veste sua persona d’un dïaspro tal che per lui, o perch’ella s’arretra, non esce di faretra saetta che già mai la colga ignuda; ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda né si dilunghi da’ colpi mortali, che, com’avesser ali, giungono altrui e spezzan ciascun’arme: sì ch’io non so da lei né posso atarme.
Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi né loco che dal suo viso m’asconda; ché, come fior di fronda, così de la mia mente tien la cima. Cotanto del mio mal par che si prezzi, quanto legno di mar che non lieva onda; e ’l peso che m’affonda è tal che non potrebbe adequar rima. Ahi angosciosa e dispietata lima che sordamente la mia vita scemi, perché non ti ritemi sì di rodermi il core a scorza a scorza com’io di dire altrui chi ti dà forza?
Ché più mi triema il cor qualora io penso di lei in parte ov’altri li occhi induca, per tema non traluca lo mio penser di fuor sì che si scopra, ch’io non fo de la morte, che ogni senso co li denti d’Amor già mi manduca6: ciò è che ’l pensier bruca la lor vertù, sì che n’allenta l’opra. E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra con quella spada ond’elli ancise Dido, Amore, a cui io grido merzé chiamando, e umilmente il priego: ed el d’ogni merzé par messo al niego.
Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida la debole mia vita, esto perverso, che disteso a riverso mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco: allor mi surgon ne la mente strida; e ’l sangue, ch’è per le vene disperso, fuggendo corre verso lo cor, che ’l chiama; ond’io rimango bianco. Elli mi fiede sotto il braccio manco sì forte che ’l dolor nel cor rimbalza: allor dico: «S’elli alza un’altra volta, Morte m’avrà chiuso prima che ’l colpo sia disceso giuso».
Così vedess’io lui fender per mezzo lo core a la crudele che ’l mio squatra; poi non mi sarebb’atra la morte, ov’io per sua bellezza corro: ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo questa scherana micidiale e latra. Omè, perché non latra per me, com’io per lei, nel caldo borro? ché tosto griderei: «Io vi soccorro»; e fare’l volentier, sì come quelli che ne’ biondi capelli ch’Amor per consumarmi increspa e dora metterei mano, e piacere’le allora.
S’io avessi le belle trecce prese, che fatte son per me scudiscio e ferza, pigliandole anzi terza, con esse passerei vespero e squille: e non sarei pietoso né cortese, anzi farei com’orso quando scherza; e se Amor me ne sferza, io mi vendicherei di più di mille. Ancor ne li occhi, ond’escon le faville che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso, guarderei presso e fiso, per vendicar lo fuggir che mi face; e poi le renderei con amor pace.
Canzon, vattene dritto a quella donna che m’ha ferito il core e che m’invola quello ond’io ho più gola, e dàlle per lo cor d’una saetta, ché bell’onor s’acquista in far vendetta.